E’ tempo di Tarassaco. Come raccoglierlo, consumarlo e quali proprietà salutari possiede

In questi giorni si osservano nei campi i fiori gialli del Tarassaco (Taraxacum officinale), altrimenti detto Dente di Leone o Soffione, che già da qualche settimana sono sbocciati e ci rivelano la presenza di questa pianta spontanea. Trovarlo è facile, perché cresce  fino a 2000 metri di altitudine e non richiede terreni particolari per svilupparsi. E’ diffusissimo nei prati incolti, lungo le strade e i sentieri di campagna. Riconoscerlo è molto semplice, osservando le foto che lo ritraggono.

Il suo utilizzo è antichissimo, sia come erba medicinale che come verdura da mangiare. Riscoprirne le proprietà è un’operazione interessante per la tavola, ma potrebbe rivelarsi saggio anche sul piano economico, dal momento che la sua coltivazione è facile, tanto che si può definire una pianta infestante.

Le foglie più tenere possono essere consumate in insalata, così come si fa in Piemonte, dove accompagnano le uova sode nella gita di Pasquetta. I piccoli boccioli, anche per il loro retrogusto leggermente amarognolo, possono essere fatti sott’olio o sottaceto, sostituendo i capperi.   I fiori sono commestibili e possono essere usati sia per colorare i piatti che per aggiungere sapore.  Le foglie possono essere lessate leggermente e poi saltate in padella con un po’ d’aglio. Le radici sono amare e tostandole si può preparare un surrogato del caffè, che ha proprietà digestive.

Sono diversi i principi attivi presenti nella pianta: il luteolin-7-glicoside, l’apigenin-7-glucoside, la quercetina, la luteolina, un rutinoside, l’isoramnetin-3-glucoside, il 3,7-diglucoside.  Sono anche presenti acido clorogenico, acido caffeico, acido monocaffeiltartarico e acido p-idrossifenilacetico.

Le sue azioni utili alla salute sono così sintetizzabili:

Ipoglicemizzante.Recenti ricerche hanno mostrato come gli estratti delle foglie riducono la resistenza all’insulina e migliorano il profilo glicemico dei pasti

Coleretico ed epatoprotettore. Tale azione risulta utile per stimolare la funzione epatica e migliorare la digestione nelle dispepsie iposteniche. Alcuni studi lo hanno testato in modo utile nelle steatosi epatiche non alcoliche.

Moderatamente diuretico

Antiinfiammatorio, grazie alla presenza di numerosi flavonoidi.

Prebiotico. Le sue fibre, ricche di inulina, favoriscono la crescita di una flora batterica intestinale ricca di lactobacilli e Bifidobacteri

 

 

Bibliografia

Choi UK, Lee OH, Yim JH, Cho CW, Rhee YK, Lim SI, et al. Hypolipidemic and antioxidant effects of dandelion (Taraxacum officinale) root and leaf on cholesterol-fed rabbits. Int J Mol Sci. 2010;11:67–78.

Davaatseren M, Hur HJ, Yang HJ, Hwang JT, Park JH, Kim HJ, et al. Taraxacum official (dandelion) leaf extract alleviates high-fat diet-induced nonalcoholic fatty liver. Food Chem Toxicol. 2013;58:30–6.

Williams CA, Goldstone F, Greenham J. Flavonoids, cinnamic acids and coumarins from the different tissues and medicinal preparations of Taraxacum officinale. Phytochemistry. 1996;42:121–7.

Wolbis M, Krolikowska M. Polyphenolic compounds of dandelion (Taraxacum officinale) Acta Pol Pharm Drug Res. 1985;42:215–21.

Wolbis M, Królikowska M, Bednarek P. Polyphenolic compounds in Taraxacum officinale. Acta Pol Pharm Drug Res. 1993;50:153–8.

 

Frutta secca: quanta mangiarne e perché

Dott. Biagio Tinghino –

La frutta secca costituisce una miniera di elementi nutrizionali che merita di essere valorizzata  di più nella nostra dieta. Occorre, però, intendersi sul termine. “Frutta secca”  è sia quella derivata dai frutti freschi essiccati (per esempio le mele o le albicocche), sia quella costituita dai semi o dalla drupe essiccate di alcune piante (noci, nocciole, mandorle, anacardi, arachidi ecc). Si tratta di due categorie abbastanza diverse che hanno contenuti nutrizionali non accomunabili.

Qui ci occupiamo della categoria costituita dai semi, che vengono consumati essiccati o tostati. Non tutti i frutti di questo gruppo sono esattamente identici. Le noci, per esempio, sono particolarmente ricche di  acido alfa linolenico (ALA), un grasso insaturo della serie  ω3, mentre le proporzioni sono diverse per altri tipi di semi oleosi.

Ecco le domande più comuni sulla frutta secca e le risposte disponibili dagli studi scientifici.

 

  1. La frutta secca fa ingrassare?

La risposta più logica è che nessun alimento fa ingrassare di per sé, bisogna capire in che quantità viene consumato e in che proporzione si inserisce nel bilancio energetico. Sicuramente stiamo parlando di un gruppo di cibi ad alta densità calorica. 100 grammi di arachidi, per esempio, contengono circa 600 Kcalorie. Una persona di corporatura media, di 40 anni e che fa una attività sedentaria se mangiasse 100 grammi di arachidi avrebbe coperto circa un terzo del suo fabbisogno calorico solo con questa porzione: sarebbe chiaramente eccessivo. Mettiamo in conto anche un’altra questione: se usiamo la frutta secca frequentemente, per esempio dopo il pasto, per “sgranocchiare qualcosa”, rischiamo di non tenere d’occhio la quantità e di esagerare. Il suggerimento è di non aggiungere la frutta secca alle calorie che introduciamo, ma di sostituire altre fonti di grassi poco sani (es. grassi animali saturi) con questi cibi. Per essere concreti, la quantità di 20-30 grammi al giorno è adeguata per la maggior parte delle persone che hanno una dieta bilanciata (al posto di altri cibi calorici).

 

  1. Aiuta a ridurre il rischio di malattie cardiovascolari?

Sembra di sì. Diversi studi hanno mostrato che chi mangia 5-6 noci al giorno ha meno rischi di infarto. Le spiegazioni sono molte. Le noci (e, anche se un po’ meno, gli altri tipi di frutta secca) sono ricche sia di acidi grassi ω6 che di acido alfa-linolenico. Quest’ultimo nell’organismo si trasforma parzialmente (il 5-7% di quello ingerito) e lentamente in altri due grassi (essenziali) come l’EPA e il DHA, che hanno un ruolo protettivo per il cuore e le arterie, oltre a ridurre i livelli di infiammazione nell’organismo.  La frutta secca apporta anche fibre, vitamine, sali minerali, calcio, tocoferoli, un po’ di ferro, antiossidanti, favoriscono la sazietà. Tutte caratteristiche importanti soprattutto per i vegetariani.

 

  1. I grassi contenuti nella frutta secca sono salutari?

La frutta secca è ricchissima di grassi, per esempio il 68% delle noci è costituito da questo tipo di nutrienti. Questo è il motivo per cui bisogna consumarne sì, ma con moderazione. La maggior parte di questi grassi è costituita da acidi di tipo ω6. Essi sono molto rappresentati nell’alimentazione e la loro valutazione risente di due aspetti. Il consumo di  ω6 (presenti peraltro anche negli oli di semi)  presenta dei vantaggi se essi sostituisco i grassi animali (saturi), ma questa pratica dovrebbe essere bilanciata da un adeguato apporto di ω3.  Ogni 4 grammi di ω6 dovremmo assumere un grammo di ω3. Le nostre abitudini sono mediamente molto lontane da tale equilibrio, soprattutto per chi non mangia pesce. Cosa fare allora?

  1. Prendere i grassi prevalentemente dall’olio di oliva (monoinsaturi) che non sposta questo equilibrio.
  2. Consumare sì un po’ grassi ω6 (oli di semi e frutta secca), ma bilanciandoli con ω3 (olio di lino, di canola, noci).

Le noci, da questo punto di vista, sono la frutta secca più interessante, perché contengono sia omega6 che omega3 (ALA).

 

  1. Cosa succede se si esagera con i grassi vegetali omega-6?

Gli ω6, come abbiamo detto, sono molto presenti nella frutta secca e negli oli di semi. Oggi l’uso di oli di semi è diffuso a causa dell’uso che se ne fa in pasticceria e nelle preparazioni industriali, in quanto il loro costo è basso e il loro sapore delicato. Ciò porta ad uno sbilanciamento del rapporto ω6/ ω6. L’eccesso di omega-6 (es. acido arachidonico) predispone ai fenomeni infiammatori in generale e perciò costituisce un rischio sia per il cuore, ma anche per le articolazioni e per tutto l’organismo.

 

  1. La frutta secca fa male al fegato o ai reni?

Se consumata in eccesso, soprattutto se all’interno di un introito energetico che si tramuta in sovrappeso, possiamo dire di sì, per esempio favorendo l’insorgenza di steatosi epatica. In realtà sono i chili in più che fanno male, indipendentemente dal come sono stati presi, fosse pure con i cibi più sani del mondo. Se invece il peso si mantiene normale e la frutta secca è consumata con moderazione la sua presenta nell’alimentazione è preziosa.

Rispetto ai reni, non ci sono motivi per pensare che essa provochi dei danni. E’ vero che noci, nocciole, mandole e simili sono ricche di calcio, ma non è il calcio il problema dei reni, neanche per chi soffre di calcolosi.  Sono molto più importanti altri fattori che determinano una eccessiva concentrazione delle urine (sovra saturazione): fattori genetici, eccessivo consumo di sale, scarsa idratazione. La prevenzione delle recidive dei calcoli renali (salvo casi metabolici ed anatomici specifici) dovrebbe consistere nel ridurre il sale e bere molta acqua (più di 2 -2,5 litri al giorno).  Una abbondante idratazione permette di avere una dieta varia (con la presenza anche di verdure che contengono ossalati e di cibi ricchi di calcio) senza eliminare nessun cibo in modo drastico.

 

 

 

Il vegetarianesimo non è una “dieta estrema”. Lettera aperta alla Società Italiana di Diabetologia.

Dott. Biagio Tinghino

La posizione pubblicata oggi sugli organi di stampa dalla Società di Diabetologia richiede una risposta scientifica, dal momento che l’alimentazione vegetariana è stata accomunata alle “diete estreme”. Il position paper della Sid esprime  un documento di consenso dei diabetologi che mostra diversi elementi di confusione. Quotidiano Sanità di ieri scrive infatti:

Le evidenze scientifiche disponibili non consentono di valutare gli effetti a lungo termine delle diete vegetariana, vegana, chetogenica e paleolitica sul diabete tipo 2 e le sue complicanze – sottolinea Giorgio Sesti, presidente della Società Italiana di Diabetologia Sid – Viceversa la dieta mediterranea, basata sull’introiti di alimenti ricchi di fibre provenienti da ortaggi, frutta e cereali non raffinati e povera di grassi di origine animale, è stata ampiamente studiata dimostrando i suoi benefici sia sul controllo del diabete sia sul rischio cardiovascolare” (Quotidiano Sanità, 12 marzo 2017).

Sono perfettamente d’accordo sul fatto che esistono poche valutazioni sui benefici della dieta vegetariana sul diabete di tipo 2, per il semplice fatto che l’alimentazione vegetariana non costituisce uno schema di trattamento dell’iperglicemia e non può essere proposta (di per sé) per curare il diabete. All’interno di questa pratica alimentare si possono benissimo nascondere grandi errori dietetici, che portano al sovrappeso, ad un eccessivo consumo di zuccheri semplici, di carboidrati, una elevata sedentarietà e così via.  Un obeso vegetariano ha sicuramente più rischi di un onnivoro con un peso regolare. Ma il documento della Sid è poco preciso su almeno tre elementi:

  1. Ha messo nello stesso calderone l’alimentazione vegetariana, la dieta chetogenica e dieta paleolitica, considerandole tutte diete “estreme”. In realtà la dieta chetogenica è manifestamente squilibrata e non  rispetta gli standard di equilibri nutrizionali finora noti. La dieta paleolitica ha fondamenti teorici del tutto incontrollabili, si basa su presupposti che non hanno niente di sperimentale. Il vegetarianesimo ha invece alle spalle millenni di storia e di esperienza e niente di “estremo”. Essa prevede un corretto ed equilibrato apporto di tutti i nutrienti previsti dalle società scientifiche. Se qualcuno poi non segue questo equilibrio è un problema suo, non del vegetarianesimo in sé. Cosa che non si può dire degli altri esempi, che contengono già nella loro teoria elementi di esclusione che costituiscono un rischio per la salute.
  1. Sull’alimentazione vegetariana e i suoi benefici esistono decine di studi osservazionali, di elevata potenza statistica, condotti con rigore e precisione. L’alimentazione vegetariana (latto-ovo-vegetariana) e quella vegana, se ben condotte, riducono il rischio cardiovascolare e quello oncologico, sia perché ciò deriva direttamente dagli studi, sia perché ricorrono molte e logiche spiegazioni: aumentano la quantità di fibre assunte (e perciò riducono il carico e l’indice glicemico), riducono la quota di grassi saturi e spesso di carboidrati raffinati. I vegetariani hanno generalmente un Body Mass Index più basso degli onnivori, una pressione arteriosa più bassa, più bassi valori di colesterolo LDL. Si tratta di elementi fondamentali per lo sviluppo di malattie metaboliche e vascolari. Dati alla mano, forse è bene ricordare che è più simile alla dieta mediterranea l’alimentazione vegetariana che quella onnivora, come oggi è comunemente praticata.
  1. Fino a prova contraria l’epidemia di diabete di tipo 2 a cui stiamo assistendo è supportata da una alimentazione onnivora. Anche la dieta mediterranea, come una onnivora, possono benissimo essere diabetogene, se travisiamo il concetto di “mediterraneo” o di “onnivoro”, eccedendo nel consumo di oli vegetali, dolci, carboidrati raffinati.  Non per questo io mi permetterei di dire che chi è onnivoro aderisce a qualcosa di “estremo”.

La Società Italiana di Dietologia ha perciò, a mio modesto avviso, fatto di “tutte le erbe un fascio”. Voleva forse esprimersi sull’efficacia del vegetarianesimo come cura del diabete (non si capisce perché), ma di fatto ha espresso dei giudizi di estremismo che facilmente rischiano di essere traslati all’intera scelta  vegetariana.  Questi  giudizi non apportano benefici al confronto scientifico, ma sembrano piuttosto l’ennesima reazione a ciò che è “diverso”, all’interno di una chiassosa polemica, che poco si addice al rigore della scienza.

PS. Bibliografia aggiornata sui temi di cui sopra è disponibile nel mio libro Vivere senza Carne, Ed. Tecniche Nuove.

I vegetariani vivono di più? Arriva una smentita, ma capiamo perchè…

Dott. Biagio Tinghino –

Numerosi studi finora hanno dimostrato che essere vegetariani allunga la vita. Ma di recente è arrivata una smentita. Si tratta dei dati provenienti da 6 anni di osservazione su un campione di 267,180 uomini di età superiore ai 45 anni, residenti nel  New South Wales (NSW), Australia.  Sono stati confrontati vegetariani, semi-vegetariani (al massimo 1 porzione di carne la settimana), pesco-vegetariani ed onnivori. Durante gli anni di osservazione si sono verificati 16.836 decessi, ma non c’è stata alcuna differenza, in proporzione, tra i vari gruppi.

Erano giuste le prime ricerche e sbagliate queste ultime? O il contrario? Le spiegazioni di queste differenze tra studi sono molte, prima fra tutti il fatto che si tratta di studi osservazionali, in cui è sempre difficile isolare i fattori che si indagano da altri fattori confondenti, nonostante gli sforzi dei ricercatori. Chi si occupa di statistica sa che servono diversi studi osservazionali, tutti concordanti fra di loro, e decenni di osservazione prima di ritenere che si è davanti ad un fenomeno certo. Questo è il motivo della prudenza di molte società scientifiche nel fare affermazioni davanti ad una singola ricerca.

Gli studi più antichi mostravano un allungamento della vita dei vegetariani, mentre studi più recenti tendono a smentire questa ipotesi. Perché? Perché negli anni ’70 e ’80 i vegetariani avevano uno stile di vita molto diverso rispetto alla popolazione generale. Oggi, invece, la cultura di una sana alimentazione è migliorata in tutte le categorie di persone. I benefici della frutta e della verdura sono ampiamente noti e molti, pur non abbandonando del tutto i derivati animali, seguono una dieta più equilibrata, meno ricca di grassi animali, con meno zuccheri e soprattutto molte più persone perseguono l’obiettivo di un peso regolare. Non sono i vegetariani che vivono meno, ma gli onnivori che hanno allungato la loro vita media, modificando i loro stili di vita. Così, almeno nei paesi ad elevato livello di cultura e informazione sulla salute, le differenze si sono ridotte. Perciò questi recenti dati costituiscono una conferma dello stile di vita vegetariano, non una smentita. Diciamo che la scelta vegetariana ha costituito un bell’esempio che ha trainato grandi cambiamenti culturali. E i risultati cominciamo a vedersi.

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Prev  Med. 2016 Dec 29;97:1-7. Vegetarian diet and all-cause mortality: Evidence from a large population-based Australian cohort – the 45 and Up Study. Mihrshahi S, Ding D, Gale J, Allman-Farinelli M, Banks E, Bauman AE.

Il legume che migliora la memoria

Dott Biagio Tinghino-

La perdita della memoria è un fenomeno parzialmente legato allo stress, ma dai 50 anni in su costituisce un segno di invecchiamento del cervello. Recenti studi ci suggeriscono dove trovare dei rimedi naturali per questo problema. E’ noto da anni che la memoria è costituita, nel cervello, da un sistema di cellule che costruiscono e immagazzinano delle proteine che costituiscono i “file” con le informazioni di immagini, eventi, parole.  Ogni evento che danneggia la sintesi delle proteine o che riduce la possibilità di costruirne di nuove (incluse le gravi carenze) danneggiano la memoria.

Ma i motivi più frequenti di smemoratezza, dopo i 50 anni, sono legati alla cancellazione delle vie che uniscono le cellule tra di loro o il danneggiamento delle membrane cellulari (i contenitori dei “file”).

Sebbene una certa perdita di neuroni o connessioni neuronali sia fisiologica dopo una certa età, dobbiamo pensare a questo processo come la tela di Penelope. Da una parte viene tessuta e da un’altra parte viene scucita. In parole povere, da un lato i danni cellulari che si accumulano col tempo e dall’altra parte la ricostruzione che ogni giorno poniamo in atto. Noi rinforziamo la memoria, per esempio, ripetendo diverse volte gli stessi atti (la traccia diventa più stabile), studiando, allenando il cervello e sottoponendolo continuamente a stimoli nuovi, pensieri diversi, punti di vista e soluzioni inedite.

La ricerca ci dice che anche il cibo che introduciamo è importante per la memoria. Aiuta il consumo di frutta e di verdura, di antiossidanti (cibi rossi e blu), legumi.  Danneggiano la memoria i cibi grassi e ricchi di dolci, perché facilitano il sovrappeso, i danni alle arterie e alla circolazione.

Ma il legume più studiato è la soia. Questa pianta preziosa contiene dei semi ricchi di una sostanza, la lecitina, che rinforza la parete delle cellule nervose. I primi studi effettuati sui topi hanno mostrato un incremento della memoria negli animali che assumevano lecitina di soia. Successivamente altri studi, sull’uomo, hanno mostrato effetti benefici nei bambini con ADHD (disturbo da deficit dell’attenzione). Infine altre ricerche sembrano indicare un  miglioramento dei pazienti affetti da Alzheimer e demenza. Sull’Alzheimer, però, i risultati non sono univoci, perché uno studio in doppio cieco non ha confermato  i primi risultati.

Ci sono dunque diversi motivi per consumare la soia, all’interno di una alimentazione equilibrata:

  1. E’ ricca di proteine vegetali di alto valore biologico
  2. Abbassa il colesterolo e contribuisce a prevenire le malattie cardiovascolari. Di conseguenza aiuta a tenere in forma la circolazione sanguigna nel cervello.
  3. Migliora la struttura delle membrane dei neuroni

Una utile e fisiologica integrazione può essere costituita anche dalla lecitina di soia, al dosaggio di 2-3 cucchiaini al giorno.

 

Bibliografia

Adv  Ther. 2014 Dec;31(12):1247-62. doi: 10.1007/s12325-014-0165-1. Epub 2014 Nov 21. Positive effects of soy lecithin-derived phosphatidylserine plus phosphatidic acid on memory, cognition, daily functioning, and mood in elderly patients with Alzheimer’s disease and dementia. Moré MI, Freitas U, Rutenberg D.

Clin  Ther. 2003 Jan;25(1):178-93. Cognitive improvement in mild to moderate Alzheimer’s dementia after treatment with the acetylcholine precursor choline alfoscerate: a multicenter, double-blind, randomized, placebo-controlled trial.De Jesus Moreno Moreno M.

J Hum Nutr Diet. 2014 Apr;27 Suppl 2:284-91. doi: 10.1111/jhn.12090. Epub 2013 Mar 17. The effect of phosphatidylserine administration on memory and symptoms of attention-deficit hyperactivity disorder: a randomised, double-blind, placebo-controlled clinical trial. Hirayama S, Terasawa K, Rabeler R, Hirayama T, Inoue T, Tatsumi Y, Purpura M, Jäger R.

J Pharmacol Sci. 2005 Jul;98(3):307-14. Epub 2005 Jul 9. Enhanced learning of normal adult rodents by repeated oral administration of soybean transphosphatidylated phosphatidylserine. Kataoka-Kato A, Ukai M, Sakai M, Kudo S, Kameyama T.

 

 

Dimagrire con le arance

Dott. Biagio Tinghino –

 

I principi attivi vegetali forniscono spesso preziosi contributi in ambito terapeutico. Di recente si è visto che le arance, alcune varietà in particolare, possono essere di aiuto per chi vuole perdere peso. E’ noto da tempo che le arance sono ricche di fibre che svolgono un effetto saziante e allo stesso tempo riducono l’assorbimento intestinale di grassi e calorie. Da non molto, però, l’attenzione si è spostata su altri nutrienti, in particolare  le antocianidine, l’acido idrossicinnamico e alcuni flavoni glicosidici.

Nel 2010 uno studio di laboratorio ha osservato che  l’assunzione di  succo d’arancia riduce l’accumulo di grasso rispetto ai controlli.   L’effetto era stato osservato per la qualità Moro (che ha un succo rosso sangue) e non per la varietà Navelina, dal colore più chiaro. Una ricerca, più recente, ha testato l’effetto di un estratto di arancia Moro (Citrus sinensis L.). Studiosi dell’Università di Catania e di Roma  hanno verificato l’effetto che aveva il principio attivo su dei volontari in sovrappeso. Dopo 4 settimane di trattamento i soggetti che avevano assunto l’estratto di arancia avevano un minor indice di massa corporea (BMI), una circonferenza addominale  inferiore al gruppo di controllo (placebo), con un buon indice di significatività statistica (p<0.05)

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Bibliografia

Nat Prod Res. 2015;29(23):2256-60. doi: 10.1080/14786419.2014.1000897. Epub 2015 Jan 15. Clinical evaluation of Moro (Citrus sinensis (L.) Osbeck) orange juice supplementation for the weight management. Cardile V, Graziano AC, Venditti A.

Int J Obes (Lond). 2010 Mar;34(3):578-88. doi: 10.1038/ijo.2009.266. Epub 2009 Dec 22. Blood orange juice inhibits fat accumulation in mice. Titta L, Trinei M, Stendardo M, Berniakovich I, Petroni K, Tonelli C, Riso P, Porrini M, Minucci S, Pelicci PG, Rapisarda P, Reforgiato Recupero G, Giorgio M.

Vino rosso (non) fa buon sangue

Dott Biagio Tinghino-

Einstein diceva che è più facile spezzare l’atomo che una falsa convinzione. Quella che il vino sia utile al sangue è uno dei miti più sbagliati e più difficili da abbattere. Probabilmente l’affermazione era scaturita, nei secoli scorsi, dal colore stesso del vino, molto simile al sangue e dall’effetto “eccitante” che apparentemente l’alcol ha sul sistema nervoso. Non a caso gli alcolici venivano usati frequentemente nella medicina pre-scientifica per dare “energia” o quando si voleva “rianimare” qualcuno. Basti pensare alla tradizione di bere liquori in alta montagna che, stando alle conoscenze attuali, facilita invece l’insorgenza di assideramenti e patologie da freddo. Nessuna di queste antiche credenze è sopravvissuta all’indagine scientifica, per cui converrà ridimensionare molte convinzioni sbagliate, mentre altre andranno collocate in una posizione di realistico equilibrio.

E’ falso che chi beve molto vino protegge il cuore, perché già dopo il 20-30 grammi di etanolo al giorno cominciano ad evidenziarsi gli effetti  negativi sull’apparato cardiovascolare.

E’ vero, invece, che le bevande alcoliche aumentano il rischio di tumore, già a partire da dosi modestissime. E’ l’altra faccia della medaglia che non andrebbe mai dimenticata. Dai 10 grammi di etanolo al giorno in su diventa ben visibile l’effetto di incremento di tumori, per esempio nelle donne.

E’ falso che il vino faccia bene al sangue e ai globuli rossi. Anzi, l’alcol facilita l’insorgenza di anemia megaloblastica da carenza di vitamina B12.

E’ vero che l’alcol danneggia le cellule nervose, in particolare la loro membrana. In questo modo facilita l’insorgenza di demenza senile, psicosi alcolica, neuropatie periferiche e disturbi della memoria.

L’alcol, invece, fa scorrere il sangue sulle strade, a causa delle migliaia di incidenti ad esso correlati (circa il 40-45% di tutti gli incidenti).

Sembra vero che l’alcol possa fornire un effetto protettivo sul rischio di infarto, entro certi limiti  (consumo molto moderato). Ma forse il beneficio sembra dovuto ai pigmenti dell’uva (antocianidine, bioflavonoidi) e non all’etanolo stesso.  per questo motivo gli stessi benefici possono essere ricavati da altri succhi di frutta privi di alcol. L’Organizzazione Mondiale della Sanità però consiglia di non cominciare a bere per beneficiare di questi presunti effetti preventivi.

L’alcol è una sostanza psicotropa che può dare dipendenza, soprattutto nei soggetti più vulnerabili sul piano sociale e psicologico, i cui effetti sono purtroppo catastrofici e molto diffusi nella popolazione generale.

L’alcol viene metabolizzato male dai giovani, fino ai 19-20 anni di età e dalle donne. Per questi motivi aumentano i rischi di intossicazione e danno organico nei ragazzi e nelle donne.

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Le 6 regole per digerire il pane

Dott Biagio Tinghino-

I carboidrati del pane possono provocare gonfiori addominali, meteorismo e disturbi digestivi in alcuni soggetti. Ma esistono dei modi per rendere gli amidi più digeribili. I cibi ricchi di carboidrati (cereali e derivati, come il pane o la pasta, o legumi) costituiscono in genere la maggior fonte di energia per il nostro organismo. Ma se non sappiamo sceglierli accuratamente e prepararli possono essere fonte di disturbi fastidiosi per un certo numero di persone. Il motivo non è, come erroneamente  spesso si è detto, né il contenuto di glutine, né la tipologia di gruppo sanguigno, né il fatto che si usi del lievito. Infatti, imparando poche semplici regole alimentari tutti possono digerire meglio i carboidrati. Occorre sapere che queste sostanze, in generale, sono costituite da catene (polimeri) di anelli più piccoli, che sono gli zuccheri semplici. La digeribilità dei cibi che sono ricchi di carboidrati dipende dalla natura e dalla lunghezza di queste catene.  Più esse sono “attorcigliate e legate” tra di loro  e meno sono digeribili. Stiamo parlando di caratteristiche fisico-chimiche come la viscosità e il peso molecolare, oltre che della struttura.  I carboidrati dei legumi sono in genere meno digeribili (resistant starch, RS) o lentamente digeribili (slowly digestible starch, SDS). Quelli derivati dai cereali sono più digeribili (rapid digestible starch, RDS), ma a patto di avere alcune informazioni.

  1. Il lievito. Il lievito è importante quanto e forse più della farina. Per digerire meglio il pane bisogna scegliere quello fatto con lievito madre (pasta acida). La lievitazione deve essere lunga.
  2. La giusta durata della lievitazione. Il lievito madre richiede in genere molte ore, per cui il fatto che sia stato usato è già una garanzia di corretta durata.
  3. Una buona farina. Le migliori farine per fare il pane sono quelle di semola, ossia derivate da grano duro. Il grano duro produce un pane consistente, morbido ed elastico, grazie al suo contenuto di glutine. Se la lievitazione è naturale si può scegliere un pane integrale, in quanto anche la fibra così presente risulterà più digeribile.
  4. Le forme piccole. Più le forme sono piccole e meglio avviene la cottura, che trasforma gli amidi (li destrinizza) in molecole più digeribili. Le forme piccole sono più digeribili di quelle grandi. La crosta del pane è molto più digeribile della mollica.
  5. La cottura adeguata. Il pane deve essere dorato al punto giusto e la mollica poca e ben asciutta, elastica, non deve restare attaccata alle dita.
  6. La masticazione accurata. Quando mastichiamo lentamente mettiamo in atto una triturazione fine del cibo che gli permette poi di essere più facilmente attaccato dagli enzimi del pancreas. Peraltro, più il cibo è ridotto in piccole particelle e prima si svuota lo stomaco. Masticando 20 volte un boccone praticamente tutti possono digerire con facilità un buon pane!
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La cura dei carciofi

E’ la stagione giusta per iniziare la cura. Quali parti della pianta usare, come prepararle in casa, che benefici attendersi.

Dott. Biagio Tinghino –

Il carciofo è una pianta dalle molteplici proprietà, ma la maggior parte dei suoi segreti non sono contenuti nel fiore (la parte che si mangia abitualmente, la calatide). Le virtù terapeutiche più importanti si trovano invece nelle foglie, amare,  lunghe e  fibrose. Il carciofo, come lo conosciamo noi, probabilmente esiste da non più di 2000 anni. Sembra che l’uomo sia riuscito a selezionare  o modificare una varietà  dai “frutti” (dizione impropria) grossi e carnosi  intorno al I secolo avanti Cristo. E probabilmente quei capaci agricoltori erano siciliani, visto che ancora nei dintorni di Mazzarino si trova coltivata una specie, i cui geni sembrano essere una forma di transizione dal carciofo selvatico, che produce frutti piccoli, spinosi, dall’aroma intenso.

 

Dove si trovano i principi attivi

Dicevamo che i benefici per la salute derivano soprattutto dalle foglie. Questa parte della pianta si può usare in tanti modi. In erboristeria  troviamo le foglie secche, a pezzetti, per fare degli infusi. L’industria invece produce degli estratti alcolici o idroalcolici, che contengono la maggior parte dei principi attivi. Per evaporazione del solvente si ottengono gli estratti molli e poi gli estratti secchi, quelli più concentrati.

 

Come preparare in casa gli estratti 

Ma un modo molto semplice di usare questa pianta in casa, soprattutto quando è la stagione, è di fare il decotto di foglie verdi o ancor meglio il succo fresco.

Ecco le modalità di preparazione. Il succo si prepara lavando bene le foglie (raccomandabile l’uso di piante coltivate in modo biologico!), togliendo l’estremità più dura, tagliandole a pezzetti e centrifugandole. Chi non ha una centrifuga può macinarle con un tritatutto e filtrare il liquido che resta. Verrà fuori  una piccola quantità di succo verde intenso, molto amaro, ma dalle grandi proprietà terapeutiche. Ecco gli effetti conosciuti…

Gli effetti sul colesterolo                                                                                                                        

Il succo e gli estratti di carciofo (foglie) aiutano ad abbassare il colesterolo nel sangue, agendo principalmente su un enzima del fegato (HMG-Co reduttasi). I risultati della maggior parte delle ricerche mostrano una riduzione dei valori totali di colesterolo compresi tra il 10 e il 25%.  Di recente sono stati analizzati tutti gli studi finora compiuti su questa pianta e una importante istituzione nel campo della revisione sistematica della letteratura scientifica (la Cochrane) ha trovato 3 studi compiuti in modo attendibile, per un totale di 262 pazienti esaminati. In questi studi il carciofo ha dimostrato di essere efficace, anche se è stato osservato che i risultati erano stati misurati nel breve termine. Pochi e leggeri erano stati gli effetti collaterali.

 

L’azione di protezione del fegato

Quando il fegato è sottoposto a stress, a causa di una alimentazione impropria, infezioni virali o danni da alcol, gli estratti di carciofo possono costituire un valido aiuto. Essi proteggono le cellule epatiche dagli attacchi di comuni tossici e aumentano la secrezione di bile (effetto coleretico). Una certa azione è  esercitata anche sulla motilità della colecisti e delle vie biliari (azione colagoga).

L’effetto antidiabetico                                                                                                                  

Diversi studi hanno confermato un certo effetto di riduzione della glicemia, sia dopo la somministrazione di estratti che il consumo dei carciofi come alimento. L’azione viene attribuita all’acido cloro genico o, in alternativa, all’inulina, che ridurrebbe l’assorbimento degli zuccheri.

L’effetto antiossidante.                                                                                                                      

L’azione di protezione contro i radicali liberi è dovuta probabilmente all’acido caffeico, alla cinarina, all’acido cloro genico e alla luteolina. Uno studio italiano del 2008 ha dimostrato l’effetto antiossidante degli estratti di carciofo sulle cellule tumorali del fegato, insieme a numerosi altre ricerche.

Le dosi, i giorni, la durata.                                                                                                                  

La quantità da assumere giornalmente varia dai 2 ai 4 cucchiai al giorno, in prossimità dei pasti principali o subito dopo.

  • Dal 1° al 7° giorno si assumeranno 1 cucchiaio di succo fresco dopo il pranzo e dopo la cena.
  • Dal 7° giorno al 14° giorno la dose sarà di 2 cucchiai dopo il pranzo e 2 dopo la cena-
  • Dal 14 al 21° giorno si tornerà ad 1 cucchiaio dopo pranzo e dopo cena.

In totale sono tre settimane, durante il quale molte persone dalla digestione lenta e difficile vedranno migliorare i loro problemi e calare i valori degli esami alterati. Naturalmente chi soffre di malattie croniche farà bene a consultare prima il proprio medico di fiducia.

Precauzioni.

E’ noto che alcuni soggetti possono avere meteorismo se mangiano molti carciofi, a causa delle fibre che essi contengono. Occorrerà perciò capire da sé quando si esagera o quando l’alimento non è ben tollerato.  Una controindicazione è costituita dalla presenza di calcoli nella colecisti, dal momento che gli estratti di questa pianta stimolano la contrazione delle vie biliari e possono provocare coliche.  Potrebbe essere notato un modesto effetto lassativo. A parte questi suggerimenti, il carciofo e i suoi frutti restano un prodotto tutto da scoprire, sia da un punto di vista gastronomico, ma soprattutto dal punto di vista della salute.

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Bibliografia

Plant Foods Hum Nutr. 2015 Dec;70(4):441-53, .Pharmacological Studies of Artichoke Leaf Extract and Their Health Benefits. Ben Salem M, Affes H, Ksouda K, Dhouibi R, Sahnoun Z, Hammami S, Zeghal KM

Cochrane Database Syst Rev. 2013 Mar 28;(3) Artichoke leaf extract for treating hypercholesterolaemia. Wider B, Pittler MH, Thompson-Coon J, Ernst E.

Ann Bot. 2007 Oct; 100(5): 1095–1100.The Domestication of Artichoke and Cardoon: From Roman Times to the Genomic Age Gabriella Sonnante Domenico Pignone, and Karl Hammer

Monaldi Arch Chest Dis. 2013 Mar;80(1):17-26.Health-promoting properties of artichoke in preventing cardiovascular disease by its lipidic and glycemic-reducing action. Rondanelli M, Monteferrario F, Perna S, Faliva MA, Opizzi A.

Rendere le arterie più elastiche? Uno studio ci dice come fare

 

Dott. Biagio Tinghino –

Molte persone, soprattutto dai 60 anni in poi, soffrono di disturbi legati all’arteriosclerosi, cioè all’indurimento delle arterie, alcune delle quali veramente importanti. Parliamo soprattutto di quelle che portano il sangue al cuore (coronarie) e al cervello (carotidi). Uno studio recentemente pubblicato da ricercatori brasiliani ha svelato che essere vegetariani rende le arterie più elastiche e – aggiungiamo noi – di conseguenza riduce il rischio cardiovascolare. C’è, insomma,  una differenza tra il funzionamento e l’elasticità delle arterie dei vegetariani, comparati con gli onnivori. La salute delle carotidi  è un indicatore di rischio rispetto ad ictus ed embolie cerebrali.

Nello studio citato, 44 vegetariani e 44 onnivori, sopra I 35 anni di età,  sono stati messi a confronto. I vegetariani avevano un indice di massa corporea (BMI) più basso, cioè erano più magri, più bassa pressione arteriosa. Erano anche più bassi i valori di colesterolo totale ed LDL a digiuno, apolipoproteina B, glucosio ed emoglobina glicosilata. Insomma, erano migliori tutti i parametri di rischio cardiovascolare. Le pareti di queste persone erano meno spesse di quelle degli onnivori, la distensibilità era migliore e soprattutto l’elasticità arteriosa (stiffness, determinata dalla pulse wave velocity, PWV). Quest’ultimo parametro era quello che era più significativamente associato alla dieta vegetariana (p-value 0.005). La scelta vegetariana, dunque, si dimostra  quanto mai opportuna per chi soffre di difficoltà circolatorie e problemi con le carotidi.

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  • Se vuoi saperne di più, nel libro Vivere senza carne c’è un capitolo dedicato

 

 

Bibliografia

Int J Cardiol. 2016 Dec 20. pii: S0167-5273(16)34546-6. Reduced subclinical carotid vascular disease and arterial stiffness in vegetarian men: The CARVOS Study.

Acosta-Navarro J, Antoniazzi L, Oki AM, Bonfim MC, Hong V, Acosta-Cardenas P, Strunz C, Brunoro E, Miname MH, Filho WS, Bortolotto LA, Santos RD.